Il risarcimento danni da responsabilità sanitaria
Il medico, ed in generale l'operatore sanitario, riveste un ruolo fondamentale nella nostra società, essendo comunemente identificato come la figura capace di fugare il nostro dolore, le nostre sofferenze, o quantomeno di alleviarle.
Il ricorso a tali professionisti potremmo dire essere, dunque, pressoché all'ordine del giorno.
La natura particolarmente delicata delle questioni patologiche che essi sono chiamati a risolvere impone, quale ordinaria conseguenza, l'adozione di massima diligenza e di assoluta competenza, valori immanenti al relativo percorso formativo professionale ed ulteriormente trasfusi in legis artis, buone pratiche clinico-assistenziali e pubblicazioni scientifiche.
Senonché, purtroppo, più di frequente di quanto si possa pensare, s'incorre in errori colposi imputabili al personale sanitario e forieri di danni più o meno gravi e permanenti a carico degli sventurati pazienti.
Premesso che nel nostro ordinamento è prevista una disciplina generale in materia risarcitoria – dunque applicabile anche alle fattispecie in esame -, la responsabilità sanitaria presenta alcune peculiarità che ritengo valga la pena esaminare nel prosieguo della presente dissertazione.
Innanzitutto una questione preliminare: a che titolo di responsabilità – contrattuale o extracontrattuale – vengono risarciti i danni in materia di responsabilità sanitaria?
Premessa la natura inequivocabilmente contrattuale della responsabilità sanitaria laddove sia intercorso un rapporto “diretto”, con insorgere del vincolo obbligatorio, tra paziente e medico (in tutti quei casi in cui il primo sceglie espressamente la figura che gli presterà assistenza ed a lui si rivolge), diversi problemi, ormai risolti, si sono posti in merito alla natura della responsabilità in tutte quelle fattispecie in cui il paziente viene affidato (“volontariamente”, ossia recandovisi consapevolmente, o meno, cioè a dire, ad esempio, trasportatovi da un'ambulanza) alle cure di un medico che presti servizio all'interno di una struttura.
A tal proposito, nell'iniziale silenzio della legge, le due correnti – dottrinali e giurisprudenziali – contrapposte sul punto affermavano l'una la natura contrattuale della suddetta responsabilità, interpretazione derivante dal principio del c.d. contatto sociale qualificato, in forza del quale, in questo caso, sarebbe possibile comunque affermare la natura contrattuale della responsabilità prescindendo dall'esistenza di un contratto in senso stretto in quanto esisterebbe tra le parti una relazione sociale considerata dall'ordinamento idonea a far sorgere un rapporto obbligatorio (ex art. 1173 c.c.): in particolare, nella materia in esame, il medico che sia chiamato a prestare assistenza al paziente sarà tenuto, per la natura stessa della sua professione ed in ossequio ai generali principi del naeminem ledere e della correttezza (1175 c.c.), a prescindere dalla previa stipulazione di un contratto in senso stretto, ad adempiere a regola d'arte agli obblighi da ciò derivanti quali conseguenza dei diritti ed obblighi corrispettivi che tale “contatto sociale” tra le parti ha comportato sorgere vicendevolmente.
Quanto all'altra corrente, invece, essa era ferma nel ritenere al contrario la natura extracontrattuale della responsabilità sanitaria, e ciò proprio muovendo dall'assenza di un contratto in senso stretto.
Senonché quest'ultima teoria, infatti risultata poi soccombente, trascurava il fatto che il regime di responsabilità c.d. contrattuale, disciplinato all'art. 1218 c.c., non si riferisce unicamente ad ipotesi di inadempimento di un contratto, bensì sancisce: “il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l'inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”.
Non si fa menzione di “parti contrattuali” in senso stretto, ma di debitore. Non v'è dubbio, però, che debitore possa essere anche un soggetto estraneo ad un vincolo contrattuale, pur parte di un'obbligazione: recita infatti l'art. 1173 c.c., rubricato “fonti delle obbligazioni”, che “le obbligazioni derivano da contratto, da fatto illecito, o da ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell'ordinamento giuridico”.
Se accogliamo dunque, così come hanno fatto dottrina e giurisprudenza, la premessa tale per cui il sol fatto che il paziente sia affidato alle cure di un medico, a prescindere da come ciò avvenga, comporti l'insorgere, proprio per tale contatto sociale qualificato, di diritti ed obblighi a carico delle parti, ne deriva l'idoneità della fattispecie or ora descritta ad esser fonte di obbligazione ex art. 1173 c.c., e dunque, quale ovvia conseguenza, ne discende la natura contrattuale della responsabilità per inadempimento della medesima.
Tanto detto, è utile evidenziare come l'approdo interpretativo a cui è giunta la giurisprudenza sia tutt'altro che privo di conseguenze giuridiche pratiche: ben diverso è, infatti, l'onere probatorio incombente sull'attore nel caso di responsabilità contrattuale rispetto all'opposta ipotesi di responsabilità extracontrattuale.
In particolare, nel primo caso chi agisce in giudizio dovrà/potrà limitarsi ad allegare l'inadempimento, dando prova del danno subito e del nesso causale tra il primo ed il secondo, mentre, nella seconda ipotesi, sull'attore incomberà il ben più gravoso regime probatorio di cui all'art. 2043 c.c.: si dovrà infatti dimostrare il fatto lesivo, la colpa o il dolo del danneggiante, l'ingiusto danno subito, il nesso causale tra fatto lesivo colposo/doloso e l'ingiusto danno patito.
L'applicazione di questo regime “di favore” nei confronti del danneggiato condusse, negli anni precedenti all'entrata in vigore della Legge Gelli-Bianco n. 24/2017 (rectius: soprattutto prima dell'entrata in vigore del c.d. Decreto Balduzzi – d.l. 13 settembre 2012, n. 158), al proliferare del contenzioso in materia.
Il rischio, sempre più frequente e tangibile, che un medico si vedesse chiamato a rispondere del proprio operato in sede giudiziaria sospinse una pericolosa prassi nota come “medicina difensiva”: quest'ultima consisteva nella tendenza dei medici a sottoporre il paziente a quanti più esami strumentali possibili, a prescindere dal fatto che i medesimi fossero da ritenersi o meno strettamente necessari, proprio al fine di cercare di pre-difendersi dalle accuse di negligenza, imperizia e, genericamente, colpa nel trattamento di un paziente.
Certo è che, se naturalmente deve essere assicurato al paziente il diritto di veder risarcito il danno ingiustamente patito a causa di malpractice sanitaria, ed altrettanto ragionevolmente ciò non deve però tradursi in una “caccia alle streghe” lesiva dell'alleanza terapeutica medico-paziente, la prassi della medicina difensiva era inaccettabile sia per lo Stato, dati i costi monstre dovuti al proliferare degli esami disposti, sia per gli stessi pazienti, spesso costretti ad un iter anamnestico e diagnostico infinito ed in buona parte inutile.
Come poc'anzi anticipavo, tale nefasta tendenza è stata, si può dire, superata dal legislatore il cui approdo, con la Legge Gelli-Bianco del 2017, ha sancito (tra le altre):
- la responsabilità contrattuale, ex artt. 1218 e 1228 c.c., non del medico bensì della struttura sanitaria presso la quale lo stesso lavora (salvo il caso in cui insorga un rapporto contrattuale diretto tra medico e paziente, ipotesi nella quale la responsabilità, anche in questo caso di natura contrattuale, per il danno da malpractice sanitaria verificatosi graverà sul singolo operatore sanitario), che potrà sì rivalersi sul medico ma solo in caso di dolo o colpa grave (e con importanti limitazioni quantitative), e ferma la possibilità per l'operatore di andare esente da responsabilità qualora, fermo il regime probatorio sopra esposto, si sia conformato alle buone pratiche clinico-assistenziali in materia (se confacenti ed idonee rispetto al caso concreto);
- la natura extracontrattuale della responsabilità del singolo medico che lavora in una struttura, ciò comportando che l'asserito danneggiato, volendo accedere al regime probatorio più agevole di cui al punto precedente, adirà usualmente in giudizio non il professionista ma la struttura sanitaria.
Queste disposizioni sono state ritenute un giusto punto di equilibrio tra il diritto del paziente a vedersi risarcito il danno da responsabilità sanitaria patito (con regime probatorio favorevole a garanzia dell'effettività di tale diritto) ed il diritto del medico di poter svolgere serenamente la propria professione, non dovendo scadere in episodi di medicina difensiva per il sol timore di vedersi citato in giudizio.
Contestualizzata la materia, giova adesso procedere ad analizzare brevemente le varie tipologie di danno maggiormente ricorrenti.
Innanzitutto una macro distinzione:
a) ipotesi in cui il danno si concreta in una lesione temporanea o permanente, più o meno grave, a carico del soggetto leso, che poi agisce per vedersi risarcito il danno patito;
b) ipotesi di danno-morte, ossia casi nei quali alla malpractice sanitaria segua causalmente il decesso del paziente; in tali fattispecie, ovviamente, ad agire in giudizio saranno i familiari del de cuius.
Quanto all'ipotesi sub a), il soggetto leso potrà verosimilmente adire dinanzi al Giudice competente la struttura sanitaria (o, in caso di contratto diretto, il medico), a titolo, come detto, di responsabilità contrattuale, lamentando un danno patrimoniale, un danno non patrimoniale od un danno da mancato consenso informato, e chiedendone il ristoro.
Con la prima tipologia di danno si fa riferimento alle conseguenze patrimoniali causate dall'inadempimento lamentato, quali, tipicamente, le spese mediche sostenute e da sostenersi per far fronte alle cure necessarie.
Quanto ai danni non patrimoniali, all'esito di un nutritissimo dibattito giurisprudenziale protrattosi animosamente per anni (e forse non ancora del tutto placatosi), è andata consolidandosi una definizione di esso ispirata alla c.d. unitarietà nella diversità: si è ritenuto, cioè, che il danno de quo, pur nell'integralità ed unicità del risarcimento, presenti natura composita, ossia ospiti al suo interno le sottospecie del danno biologico, morale, esistenziale, estetico, da perdita del rapporto parentale (seppur appartenente alla superiore ipotesi sub b)). Questa tipologia di danno, quindi, costituisce una categoria giuridicamente (seppur non fenomenologicamente) unitaria, assumendo le singole species carattere meramente descrittivo (Cass. n. 7513/2018).
Venendo a definire le varie componenti, il danno biologico consiste genericamente nella lesione, temporanea o permanente, dell'integrità fisica o psichica di una persona, suscettibile di accertamento medico-legale, che esplica un'incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato. Esso si divide in permanente e temporaneo, a seconda che il pregiudizio patito sia destinato a guarire con o senza postumi. Nel primo caso, esso viene liquidato ricorrendo ad un meccanismo tabellare (c.d. Tabelle di Milano) che associa, previa valutazione medico-legale, il danno subito ad un valore (da 1 a 9 si parla di micro-invalidità, da 10 in poi di macro). Nel secondo caso, il medico-legale andrà accertando per quanti giorni il danneggiato è rimasto, a causa di quanto subito, in tutto o in parte vittima di invalidità, ed a ciò corrisponderà un valore monetario (chiaramente tanto più alto quanto più a lungo l'invalidità si sia protratta con incidenza prossima al 100%).
Il danno morale, invece, consiste nel turbamento dell'animo e della sofferenza patita; quello esistenziale nella modifica delle abitudini e dei rapporti relazionali dell'individuo, con ripercussioni negative sulla capacità/possibilità di espressione della propria personalità all'esterno; il danno estetico si concreta nella compromissione dell'aspetto esteriore del danneggiato ed, infine, il danno da perdita del rapporto parentale consiste nelle conseguenze della privazione del rapporto affettivo con il familiare defunto, con consequenziale elisione di un sistema di vita basato sull'affettività, sulla condivisione e sulla quotidianità dei rapporti interrelazionali.
Il danno non patrimoniale, ai sensi, dell'art. 2059 c.c., è risarcibile soltanto nei casi previsti dalla legge, ossia:
- quando derivi da fatto illecito integrante gli estremi di un reato;
- quando sia stato leso un diritto della persona costituzionalmente garantito;
- nelle altre ipotesi previste dalla legge.
Per quanto concerne il danno da mancato consenso informato, esso muove dalla previa considerazione per cui il consenso informato costituisce legittimazione e fondamento del trattamento sanitario: in assenza dello stesso, l'intervento del medico è - fatta eccezione per le ipotesi di trattamento sanitario obbligatorio per legge o in cui ricorra uno stato di necessità - sicuramente illecito, anche quando è eseguito nell'interesse del paziente.
Esso, in concreto, si traduce nel dovere in capo al medico di informare in modo chiaro il paziente circa l'oggetto del trattamento sanitario cui sarà sottoposto con le relative conseguenze (specialmente possibili controindicazioni patologiche), nonché unitamente alle eventuali alternative terapeutiche esistenti.
Il tutto affinché il paziente sia libero di ponderare e successivamente esprimere scientemente la propria volontà in merito ad attività capaci di incidere sensibilmente sulla propria integrità psico-fisica; inoltre, un'ulteriore ratio alla base di questa fattispecie consiste nell'evitare il turbamento psico-emotivo in cui incorrerebbe il paziente laddove venisse sottoposto ad un intervento sanitario non gradito/voluto, ovvero ove, all'esito del medesimo, residuassero a suo carico conseguenze pregiudizievoli non rappresentategli preventivamente.
Qualora tale consenso, che deve esser manifestato per iscritto ed espressamente sottoscritto, dovesse mancare l'intervento terapeutico sarebbe illecito in quanto impedito sia ai sensi dell'art. 32, co. 2, Cost., secondo cui nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge, sia ai sensi dell'art. 13 Cost., in forza del quale viene garantita l'inviolabilità della libertà personale anche in riferimento al diritto ad autodeterminarsi con riguardo a tutto quanto incida sulla propria integrità fisica.
Sul punto, costituisce dato pacificamente acquisito quello per cui la violazione dell’obbligo di informare costituisca autonoma fonte di imputazione della responsabilità per le lesioni che siano derivate al paziente dal trattamento sanitario, anche se questo sia stato eseguito in modo del tutto diligente e perito. La configurazione della condotta omissiva dannosa e dell'ingiustizia del fatto, infatti, sussiste per la semplice ragione che il paziente, a causa del deficit di informazione, non è stato messo in condizione di assentire al trattamento sanitario con una volontà consapevole delle sue implicazioni e, quindi, tale trattamento non può dirsi avvenuto previa prestazione di un valido consenso apparendo così eseguito in violazione delle norme costituzionali suddette.
La giurisprudenza recente (tra cui la Cassazione civile, 11 novembre 2019, n.28985, sez. III) ha delineato i contorni dell’istituto, spiegando che la mancanza di consenso informato può dar luogo ad un duplice danno: un pregiudizio alla salute quando il paziente, se correttamente informato, avrebbe rifiutato l'intervento, rivelatosi poi dannoso per la sua integrità fisica; un pregiudizio al diritto all'autodeterminazione se, a causa della mancata informazione, il paziente ha subito dei danni, patrimoniali e non patrimoniali, diversi ed ulteriori rispetto alla lesione del diritto alla salute (per esempio, un periodo di riabilitazione non previsto, oppure lo stravolgimento dei propri impegni professionali, oppure, ancora, la violazione della propria sfera religiosa).
Su tale tipo di pregiudizio si è concentrato il lavoro dell’Osservatorio del Tribunale di Milano 2021 che ha quantificato come danno all’autodeterminazione di grave entità, una liquidazione da Euro 9.000,00 a 20.000,00 (valutazione del danno basata su entità grave dei postumi del trattamento; necessità di uno o più trattamenti riparatori, anche invasivi; grave sofferenza interiore conseguente al trattamento sanitario non preceduto da consenso; paziente vulnerabile; intervento invasivo/non urgente/con diverse alternative terapeutiche; grave violazione dell’obbligo informativo: es. informazione completamente assente).
Procedendo con l'analisi della seconda ed ultima parte della presente dissertazione (quella di cui al superiore punto b)), ci troviamo dinanzi a tutte quelle ipotesi in cui, ahimé, il danno da malpractice sanitaria cagiona il decesso del paziente.
Prima figura che viene in considerazione è il c.d. danno tanatologico: questo, consistente nel pregiudizio da perdita del bene vita, è, però, ad oggi ritenuto non risarcibile da parte della giurisprudenza, in quanto la circostanza che la vita è un bene personalissimo ed individuale fruibile da parte del solo titolare dello stesso impedisce di ritenerlo risarcibile iure hereditatis (cioè a dire facendolo valere in giudizio gli eredi quale diritto al risarcimento da loro ereditato dal de cuius).
Ciò non significa che non residuino ipotesi di danno risarcibili iure hereditatis, quali: il c.d. danno biologico terminale ed il c.d. danno da lucida agonia.
La prima fattispecie consiste nel danno da invalidità temporanea subito dal de cuius tra la lesione e la morte, danno ritenuto risarcibile, quale pregiudizio alla salute che, pur temporaneo, è massimo nella sua intensità ed entità, a prescindere dalla percezione cosciente della gravissima lesione dell'integrità personale della vittima nella fase terminale della stessa. Perché tale voce di danno sia risarcibile, dunque, occorre unicamente che tra le lesioni colpose e la morte intercorra un apprezzabile lasso di tempo (cfr. Cass. n. 11719/2021).
Quanto, invece, al c.d. danno da lucida agonia (o catastrofale o ancora morale terminale), esso rappresenta il pregiudizio subito dalla vittima in ragione della sofferenza provata nel consapevolmente avvertire l'ineluttabile approssimarsi della propria fine (cfr. Cass. n. 11719/2021).
In tale ipotesi, dunque, è necessaria la prova della percezione cosciente da parte del paziente de cuius dell'esito decisivo (in senso nefasto) della lesione colposa patita sulla propria vita.
Rimane, in conclusione, da analizzare il c.d. danno da perdita del rapporto parentale, voce azionabile in giudizio iure proprio (ossia quale espressione di un diritto proprio degli attori parenti del defunto) e risarcibile ricorrendo, per la relativa quantificazione, alle tabelle di Roma (non le sole esistenti, ma quelle che la giurisprudenza recente ritiene preferibili con riferimento a questa voce di danno in quanto più complete e personalizzabili).
Esso si fonda sulla necessità percepita dall'ordinamento di ristorare i prossimi congiunti di colui il quale sia deceduto in conseguenza di un errore colposo per l'elisione del vincolo affettivo, della quotidianità sociale e del legame interpersonale per tale ragione sofferto.
Questa voce di danno, dunque, per poter esser risarcita non può prescindere dall'accertamento – e dimostrazione - della sussistenza di tale vincolo affettivo, che ovviamente si darà tanto più per presunta quanto più stretto sarà il legame parentale (es. coniuge, figli).
Si dovrà, quindi, dar prova che, prima che il soggetto subisse la lesione colposa poi causa del decesso, vi fosse un intenso rapporto affettivo tra le parti, fatto di momenti, condivisione, famiglia, esperienze, quotidianità, sostegno reciproco, la cui improvvisa ed ingiusta lacerazione abbia dunque effettivamente provocato un consistente danno non patrimoniale a carico dei superstiti.
Tutto quanto sopra premesso, ritengo utile concludere con una riflessione: il risarcimento dei danni subiti per malpractice sanitaria si propone una missione umanamente impossibile ed inconcepibile, quale il trasformare la sofferenza psico-fisica in denaro.
Ciononostante, assunto che il denaro non possa restituire quanto in tal senso ormai perduto, questa materia intende quantomeno consentire al danneggiato e/o ai suoi familiari di proseguire il proprio percorso esistenziale munendo loro di strumenti economici spesse volte sufficienti, o comunque di aiuto, per far fronte alle peripezie per così dire “materiali” che la vita pone quotidianamente di fronte.