La responsabilità da cosa in custodia ex art. 2051 c.c.. In particolare, il danno patito in conseguenza del malversare del manto stradale

L'art. 2051 del codice civile, rubricato “danno cagionato da cosa in custodia”, introduce una forma di responsabilità di natura extracontrattuale definita dalla dottrina “aggravata”, in quanto caratterizzata dall'incombere a carico del custode – che definiremo tra poco – della responsabilità per il danno causato dalla res da lui custodita – definizione, pure questa, che approfondiremo nel prosieguo della presente dissertazione – a prescindere dal connotato della colpa e con inversione dunque dell'onere della prova – questo decisamente favorevole per il danneggiato, che dovrà/potrà limitarsi a dimostrare l'evento e le conseguenze pregiudizievoli a suo carico dallo stesso derivate, nonché il nesso causale tra la cosa e l'evento lesivo stesso -, salva la possibilità per questi di liberarsi da tale presunzione dando prova del caso fortuito.

Dunque, riassumendo, ai sensi dell'art. 2051 c.c. (che recita testualmente “ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito”), gli elementi caratterizzanti la fattispecie sono:

- un evento che reca danno ad un soggetto;

- l'individuazione della causa dello stesso in una res – di qualunque natura: solida, liquida, gassosa, ferma o in moto -;

- la possibilità di identificare un rapporto di disponibilità giuridica e materiale tra un soggetto, noto di conseguenza come custode, e la cosa. Più specificamente, il potere di custodia si sostanzia di tre elementi: 1) il potere di controllare la cosa, 2) il potere di modificare la situazione di pericolo insita nella cosa o che in essa si è determinata, 3) il potere di escludere qualsiasi terzo dall'ingerenza sulla cosa nel momento in cui si è prodotto il danno (cfr. Cass. 27 marzo 2007, n. 7403);

- la responsabilità, per il danno causato dalla res, del suo custode, a prescindere da colpa o dolo, in forza di una presunzione frutto di un regime d'imputazione della stessa che si potrebbe definire sostanzialmente oggettivo;

- la possibilità per il custode di liberarsi dalla suddetta responsabilità dimostrando l'elisione del nesso causale cosa-evento dovuto al caso fortuito che, secondo la giurisprudenza, può concretizzarsi in un accadimento naturale, in un fatto del terzo o del danneggiato.

Quanto proprio al caso fortuito, una precisazione: la giurisprudenza ha dimostrato negli anni, in maniera sostanzialmente pacifica, di pretendere la prova positiva dell'esistenza di un fattore esterno qualificabile come caso fortuito - in quanto, per imprevedibilità, eccezionalità e inevitabilità estraneo al controllo del custode - e della sua incidenza in concreto sul nesso causale (cfr. Cass. 12 novembre 2020, n. 25460; Cass. 23 gennaio 2019, n. 1725).

Questo, in altri termini, significa che, qualora il danno scaturisca da una causa ignota, esso rimarrà a carico del custode (cfr. Cass. 14 ottobre 2011, n. 21286).

Sempre sul punto, peraltro, è utile suggerire un'ulteriore riflessione: la Suprema Corte, nell'affermare che in tema di di danno cagionato da cose in custodia, il giudizio sull'autonoma idoneità causale del fattore esterno estraneo alla cosa deve essere parametrato sulla natura della cosa stessa e sulla sua pericolosità, di talché quanto meno essa è intrinsecamente pericolosa e quanto più la situazione di possibile pericolo è tale da essere prevista e superata attraverso l'adozione delle normali cautele da parte del danneggiato, tanto più influente deve considerarsi l'efficienza causale dell'imprudente condotta della vittima (cfr. Cass. 29 gennaio 2019, n. 2345), si spinge sino a statuire che “non risulta predicabile la ricorrenza del caso fortuito a fronte del mero accertamento di una condotta colposa della vittima richiedendosi, per l'integrazione del caso fortuito, che detta condotta presenti anche caratteri di imprevedibilità ed eccezionalità tali da interrompere il nesso causale tra la cosa in custodia ed il danno”. Dunque, “una volta accertata una condotta negligente, distratta, imperita, imprudente, della vittima del danno da cose in custodia, ciò non basta di per sé ad escludere la responsabilità del custode, essendo la stessa esclusa dal caso fortuito, ovvero da un evento che praevideri non potest” (cfr. Cass. 24 marzo 2021, n. 8216).

Evidente che, alla luce di tale interpretazione alquanto rigorosa, ne derivi la natura oggettiva a tutti gli effetti della responsabilità ex art. 2051 c.c., tanto che pure la stessa giurisprudenza non teme di spendersi in tale definizione (cfr. Cass. 9 luglio 2019, n. 18319).

Altro chiarimento che si rende necessario concerne le modalità mediante le quali il danno da cosa in custodia viene realizzandosi: esso, per sua natura, discende non dall'uso da parte dell'uomo della stessa, bensì dalle caratteristiche della res e dalla sua pericolosità in concreto, ovvero dal suo dinamismo intrinseco.

Il giudizio sulla pericolosità delle cose inerti, sostiene la giurisprudenza, “deve essere condotto alla stregua di un modello relazionale in base al quale la cosa venga considerata nel suo normale interagire con il contesto dato, sicché una cosa inerte può ritenersi pericolosa in quanto determini un alto rischio di pregiudizio nel contesto di normale interazione con la realtà circostante (cfr., ex multis, Cass. 16 maggio 2008, n. 12419).

Venendo al focus particolare della presente dissertazione, ossia il danno causato dal malversare del manto stradale, giova riportare le pronunce giurisprudenziali salienti sul punto, dovendosi dar atto di come la possibilità di adire efficacemente l'autorità giudiziaria al fine di sentir condannare l'ente pubblico gestore della strada al risarcimento di tali danni costituisca un approdo tutt'altro che scontato a cui la Suprema Corte è giunta piuttosto di recente.

Ciò detto, ad oggi tale possibilità può definirsi pacifica, fermo restando il rispetto, quanto all'onus probandi, dei requisti che vedremo di seguito.

Con la sentenza n. 4160 del 13 febbraio 2019, la Corte di Cassazione ribadiva un principio fondamentale in materia valevole in genere per ogni ipotesi riconducibile all'art. 2051 c.c.: essa, infatti, affermava che, per potersi ritenere integrata la fattispecie de qua nel requisito del nesso causale cosa-danno, occorre che la prima “si inserisca, con qualificata capacità eziologica, nella sequenza che porta all'evento, e non rappresenti mera circostanza esterna, o neutra, o elemento passivo di una serie causale che si esaurisce all'interno e nel collegamento di altri e diversi fattori”.

A tal proposito, sempre la Suprema Corte sostiene la responsabilità ex art. 2051 c.c. dell'ente proprietario di una strada aperta al pubblico transito per difetto di manutenzione laddove l'evento derivi da situazioni pericolose connesse alla struttura o alle pertinenze della strada stessa. Ciò, a meno che si dia prova che l'utente, mancando della dovuta diligenza, sia incorso nell'evento nonostante avesse potuto prevederlo ed evitarlo, ponendosi in tal caso la sua condotta quale elemento interruttivo del nesso causale res-danno (cfr. Cass. 22 ottobre 2013, n. 23919).

Il caso fortuito, ritiene la Corte di Cassazione, può consistere in materia sia nell'alterazione imprevista, imprevedibile e non tempestivamente eliminabile o segnalabile ai conducenti dello stato dei luoghi, sia nella condotta della vittima, priva dell'ordinaria cautela/diligenza (cfr. Cass. 11 marzo 2021, n. 6826).

In ogni caso, a favore del danneggiato, la giurisprudenza sostiene che possa configurarsi la fattispecie de qua anche laddove la situazione di pericolosità per l'utente della strada non derivi, in tutto o in parte, dalla mancata manutenzione della strada stessa, ma pure delle aree, anche se di proprietà privata, latistanti le pubbliche vie; “ne consegue che, nel caso di danni causati da difettosa manutenzione d'una strada, la natura privata di questa non è, di per sé, sufficiente ad escludere la responsabilità dell'amministrazione comunale ove, per la destinazione dell'area e per le sue condizioni oggettive, la stessa era tenuta alla sua manutenzione” (cf.r Cass. 7 febbraio 2017, n. 3216).

E', però, da ritenersi esclusa la responsabilità della P.A. laddove, per estensione, posizione, dotazioni, modalità di utilizzo della strada, all'ente pubblico sia precluso in concreto un effettivo potere di controllo sulla res (cfr. Cass. 22 aprile 2010, n. 9546).

E' utile, però, precisare che la giurisprudenza ha ritenuto la responsabilità dell'ente custode della strada sia nel caso in cui un automobilista abbia subito un danno causato dalla presenza in autostrada – ndr. per sua natura piuttosto vasta ed intensamente fruita - di un grosso sasso sulla sede stradale (cfr. Cass. 28 settembre 2012, n. 16542), sia in caso di danno subito da un utente sulle cc.dd. strade bianche (strade di servizio), purché non interdette al passaggio delle autovetture e collegate a strade a scorrimento ordinario di automezzi (cfr. Cass. 27 febbraio 2019, n. 5726).

Ancora, sempre in tema di responsabilità della P.A. ai sensi dell'art. 2051 c.c., “la circostanza che l'adozione di specifiche misure di sicurezza non sia prevista da alcuna norma astrattamente riferibile ad una determinata strada non esime la P.A. medesima dal valutare comunque, in concreto, ai sensi dell'art. 14 del codice della strada, se quella stessa strada possa costituire un rischio per l'incolumità degli utenti” (cfr. Cass. 5 maggio 2017, n. 10916).

Un peculiare regime di responsabilità in materia concerne infine il caso in cui il danno si verifichi in un tratto stradale su cui insiste un cantiere per lavori: in questo caso, se l'area di cantiere risulta enucleata, delimitata ed affidata all'esclusiva custodia dell'appaltatore, con conseguente assoluto divieto su di essa del traffico veicolare e pedonale, dei danni ivi subiti risponderà soltanto l'appaltatore. Qualora, invece, l'area de qua sia ancora aperta al traffico, è da ritenersi permanere la qualifica di custode in capo alla P.A. che, quindi, in caso di evento dannoso, sarà chiamata a rispondere ex art. 2051 c.c., sia pure assieme all'appaltatore (cfr. Cass. 25 maggio 2013, n. 15882).

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